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Crisi ipertensive: cosa fare

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L’ipertensione arteriosa è una condizione estremamente frequente nella nostra popolazione. In considerazione dell’elevata prevalenza, la gestione delle “cosiddette crisi ipertensive” è un problema molto rilevante, da considerarsi quasi di salute pubblica.

Il problema principale è la distinzione tra crisi ipertensive “semplici” (legate caratterizzate dal solo aumento eccessivo dei valori pressori in totale assenza di sintomi), dalle “urgenze” e ancora di più dalle “emergenze” ipertensive, nelle quali il paziente ha sintomi ed è addirittura a rischio di vita per gravi complicanze cardio- e cerebro- vascolari.

Possiamo infatti definire:

  1. Emergenza ipertensiva: Sintomi e segni di danno d’organo
  2. Urgenza ipertensiva: Sintomi aspecifici di possibile danno d’organo pre-clinico (cefalea, vertigini, palpitazioni…)
  3. Rialzo asintomatico della PA: Nessun sintomo

Quali valori di pressione arteriosa (PA) definiscono la crisi ipertensiva? I valori di cut-off per definire una crisi ipertensiva non sono chiaramente stabiliti, poiché le conseguenze di un rialzo pressorio sono soggette a grande variabilità interpersonale e, spesso, la variazione della PA rispetto ai valori basali può essere clinicamente più rilevante del suo valore assoluto. Valori pressori che definiscono una crisi ipertensiva sono: PA sistolica ≥ 180 mmHg e/o PA diastolica ≥ 120 mmHg.

Le possibili eziologie di una crisi ipertensiva sono:

  • Ipertensione arteriosa essenziale: inadeguatezza dell’attuale trattamento; mancata mancata assunzione della terapia.
  • Ipertensione secondaria (cioè causata da qualche altra malattia che la rende resistente ai farmaci)
  • Assunzione di sostanze ad azione ipertensiva (attenzione ai prodotti da banco, liquirizia, anti-infiammatori etc.).
  • Pseudoipertensione

I segni ed i sintomi di una urgenza ipertensiva, quindi non complicata, possono includere cefalea severa, affanno, ansietà e angoscia. Nelle emergenze ipertensive, invece, possono manifestarsi complicazioni severe e potenzialmente letali, come infarto miocardico, ictus, emorragie cerebrali, confusione mentale fino al coma, angina pectoris, dissezione aortica, eclampsia gravidica, insufficienza renale acuta. Fortunatamente, le emergenze ipertensive sono rare ed interessano per lo più pazienti ipertesi che non seguono una terapia adeguata per mantenere nella norma i valori pressori. Le emergenze ipertensive sono eventi clinici in cui il paziente si trova in pericolo di vita ed è quindi necessaria una rapida riduzione dei valori pressori; i soccorsi, pertanto, prevedono il ricovero ed una pronta terapia, solitamente endovenosa, allo scopo di limitare il danno d’organo.

Recentemente è stato pubblicato su Jama Interna Medicine un interessante studio sulla gestione delle crisi ipertensive da parte dei ricercatori della Cleveland Clinic (USA) (JAMA Intern Med. 2016;176(7):981-988.). Lo studio ha seguito il decorso dei pazienti con una crisi ipertensiva diagnosticata in ambulatorio per valutare le differenze di outcome tra chi era stato trattato in ambulatorio e chi era stato inviato in pronto soccorso. L’argomento è di grande utilità clinica, anche perché la gestione della crisi ipertensiva è spesso un dilemma che investe quotidianamente chi si occupa di ipertensione. E la risposta non è affatto scontata. La paura di fondo è che il paziente con un’urgenza ipertensiva possa complicarsi con un danno d’organo. Quindi, mandarlo a casa, anche dopo aver ridotto i valori pressori con una terapia d’emergenza, può destare qualche inquietudine. Va detto poi che, nonostante un’abbondanza di linee guida sul trattamento della pressione arteriosa, la gestione di un’emergenza/urgenza ipertensiva resta ancora una zona grigia. Per tutti questi motivi non è infrequente trovare pazienti con la pressione alta, nella sala d’aspetto del pronto soccorso. I ricercatori sono andati a valutare un’ampia casistica di pazienti che, dal 2008 al 2013, avevano presentato un’urgenza ipertensiva presso un ambulatorio della Cleveland Clinic. Su 2,2 milioni di visite ambulatoriali, gli autori ne hanno selezionate circa 560 mila (il 4,6%) che rispondevano ai criteri di ‘urgenza ipertensiva’. L’identikit di questi pazienti con crisi ipertensiva era: 58% donne, BMI di circa 31, sistolica media 182,5 mmHg e diastolica media 96,4 mmHg. Un dato sorprendente dello studio è che, di questa notevole mole di pazienti, solo lo 0,7% (426) è stato prontamente inviato al pronto soccorso per risolvere la crisi ipertensiva. Tutti gli altri sono stati mandati a casa, dopo la gestione ambulatoriale del caso. Andando a confrontare i 426 pazienti inviati in pronto soccorso con altri 852 pazienti inviati a casa dopo il trattamento ambulatoriale della crisi, gli autori non hanno rilevato alcuna differenza significativa nel tasso di eventi cardiovascolari avversi maggiori (MACE) a distanza di una settimana, né di un mese, né di sei mesi. Notevole è invece stato l’impegno economico generato dalla gestione delle crisi ipertensive presso il dipartimento d’emergenza. In particolare – ricordano gli autori – i 426 pazienti sono stati sottoposti a 748 test, dei quali solo il 5,5% è risultato alterato; sono state inoltre effettuate 60 TAC (49 TAC cranio e 11 del torace) tutte risultate normali. E sono risultati da considerare visto che, oltre allo spreco di risorse, hanno comportato un inutile esposizione dei pazienti alle radiazioni. Tra quanti sono stati rinviati a casa, molti avevano ancora una pressione scarsamente controllata a distanza di un mese dalla crisi, ma non a sei mesi. E tra questi pazienti comunque molto bassa è stata la percentuale di ricoveri a una settimana. Le urgenze ipertensive sono evenienze comuni nell’attività ambulatoriale. In assenza di sintomi, possibile spia di un danno a carico degli organi bersaglio dell’ipertensione, la maggior parte di questi pazienti – concludono gli autori dello studio – possono essere trattati in ambulatorio e quindi rimandati a casa, perché le complicanze cardiovascolari a breve termine sono rare. L’invio in pronto soccorso, oltre ad assorbire risorse, non dà risultati migliori della gestione ambulatoriale. Va tuttavia tenuto presente che i soggetti con un’urgenza ipertensiva sono ad elevato rischio di ipertensione scarsamente controllata fino a sei mesi dopo la crisi ipertensiva; per questo motivo bisognerebbe seguirli attentamente e intensificare il trattamento antipertensivo.

I pazienti con importante rialzo della PA (PAS ≥ 180 mmHg e/o PAD ≥ 120) e sintomi aspecifici e lievi come ad esempio cefalea, parestesie, cardiopalmo, lieve dispnea, ecc, specialmente se già noti al paziente e riconducibili a rialzo pressorio, possono essere trattati senza ricorrere all’ospedalizzazione con riduzione graduale dei valori pressori nell’arco delle 24-48 ore utilizzando farmaci per os e sottoponendo il paziente a follow-up più frequente. I pazienti completamente asintomatici con PA elevata devono essere trattati con ottimizzazione della terapia anti-ipertensiva per os, ottimizzazione della compliance, eliminazione dei fattori favorenti il rialzo della PA (fumo di sigaretta, caffè…) ed eventuale ricerca delle cause di ipertensione secondaria. In questi pazienti la riduzione della PA può avvenire con tempi ancora più lunghi dei pazienti con “urgenza ipertensiva”. Corre l’obbligo ricardare che l’impiego di nifedipina sub-linguale, pratica clinica molto usata alcuni anni fa, ma non del tutto scomparsa, è controindicata a causa di un effetto ipotensivante e tachicardizzante non prevedibile, spesso molto marcato e potenzialmente pericoloso. Sono consigliati invece farmaci utilizzati per la terapia in cronico (aumentare la posologia o aggiungere farmaci di seconda o terza linea in base alle esigenze del paziente) come betabloccanti, calcioantagonisti, ACEI, ARB, diuretici, alfa-litici, in particolare Captopril 25/50 mg per os.

Il paziente infine può contribuire alla prevenzione delle crisi ipertensive tramite un attento controllo pressorio (monitoraggio regolare della pressione arteriosa) ed all’assunzione dei farmaci secondo le dosi e le modalità prescritte. Una corretta educazione ad evitare lo “stress da misurazione” può contribuire a ridurre i valori pressori e con essi il rischio di subire crisi ipertensive. Spesso infatti una non corretta automisurazione domiciliare è alla base di ansie e paure da parte del paziente che poi, in preda al panico, sviluppa una vera e propria crisi ipertensiva difficilmente gestibile a domicilio. Sotto questo aspetto risultano particolarmente importante l’educazione del paziente all’automisurazione corretta e l’impiego di apparecchi validati e sicuri, al fine di evitare erronee misurazioni. In questo senso, gli apparecchi di ultima generazione che permettono anche una corretta valutazione della pressione arteriosa indipendentemente dal corretto posizionamento del bracciale possono offrire maggiori garanze.

Lorenzo Ghiadoni
Internista
Centro Riferimento Regionale Ipertensione Arteriosa
Direttore Medicina d’Urgenza Universitaria
AOU Pisana e Università di Pisa
Presidente AcEMC (Academy of Emergency Medicine and Care)

Andrea Ungar
Geriatra e Cardiologo
Responsabile Centro Ipertensione Geriatra-UTIG (AOU Careggi)
Centro di Riferimento Regionale della Toscana per l’Ipertensione Arteriosa dell’anziano
Presidente SIGG (Società Italiana di Gerontologia e Geriatria)

Tags: ipertensioneipertensione arteriosapressione

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